mercoledì 27 aprile 2011

Se gli occhi non hanno i piedi, non camminano... e se i piedi non hanno occhi, non vedono.

Ascensione, di Giotto - Cappella Scrovegni
Atti degli Apostoli 1, 9-11
Detto ciò, mentre lo guardavano,
fu elevato in alto
e una nube lo sottrasse ai loro occhi.
Essi stavano fermi fissare il cielo
mentre egli se ne andava,
quand'ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero:
«Uomini di Galilea,
perché rimanete fermi a guardare il cielo? 
Questo Gesù, che di mezzo a voi
è stato assunto in cielo,
verrà allo stesso modo
in cui l'avete visto andare in cielo».


Quello che colpisce in questi tre versetti è l'alta concentrazione di parole appartenenti al campo semantico (si dice così?) degli occhi e dei piedi.

Gli occhi sono quelli degli apostoli, e sembra che sia la loro unica parte funzionante: infatti tutto il resto è fermo.
I piedi invece sono quelli di Gesù che se ne va in cielo (una bella camminata!),
e quelli dei due uomini (che non hanno le ali degli angeli! Ma sono Mosè ed Elia, cioè la Legge e i Profeti), che probabilmente vengono dal cielo, facendo una specie di scambio con Gesù: lui va, loro vengono.


Icona della Trasfigurazione
Questo mistero andrebbe meditato (secondo l'antica tradizione dei Padri della Chiesa) insieme al mistero della Trasfigurazione sul monte Tabor.
E' infatti il racconto di una reale esperienza spirituale, ben più "piena" di un semplice vedere fisico e di un semplice spostarsi fisico.


Occorre allora innestare dei piedi spirituali ai nostri occhi portati per natura a vedere solo il visibile, per portarli in alto, cioè per portarli a vedere dentro il cielo, dentro il mistero invisibile (ma molto reale) di Dio.
E occorre innestare occhi spirituali ai nostri piedi, portati per natura a stare fermi sulla terraferma, e non molto propensi alla salita del monte.
"Chi salirà il monte del Signore?
Chi ha mani innocenti e occhi sani", dice il Salmista.


Se hai un po' di tempo per leggere e pregare, leggi e prega con questo bellissimo testo:



Ascensione del Signore Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo

Autore: Pagani, Roberto  Curatore: Scalfi, P. Romano
Fonte: CulturaCattolica.it

All’inizio degli Atti degli Apostoli troviamo il racconto più esteso della Ascensione (At 1, 1-12):
Nel mio primo libro ho gia trattato, o Teòfilo, di tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio fino al giorno in cui, dopo aver dato istruzioni agli apostoli che si era scelti nello Spirito Santo, egli fu assunto in cielo. Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre «quella, disse, che voi avete udito da me: Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni». Così venutisi a trovare insieme gli domandarono: «Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra». Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo». Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso in un sabato.
Gli storici della liturgia ci dicono che, nelle varie tradizioni, una celebrazione distinta della festa della Ascensione il quarantesimo giorno dopo Pasqua non compare se non verso la fine del IV secolo. Egeria, la più celebre pellegrina dell’antichità cristiana, non ne fa alcun esplicito riferimento. È invece evidente una tradizione ben più antica che colloca l’Ascensione insieme all’invio dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, che è noto essere originariamente una festa ebraica. In realtà, alcuni studiosi hanno con acutezza rilevato come le letture sul Monte degli Ulivi riferite da Egeria al pomeriggio del cinquantesimo giorno (la lettura dal vangelo sull’ascensione del Signore, poi la lettura degli Atti degli Apostoli sull’ascensione del Signore ai cieli dopo la sua risurrezione) costituiscano le letture per la festa del quarantesimo giorno nei lezionari del V secolo. In accordo con la primitiva concezione della festa di Pasqua come celebrazione totale della nostra redenzione (seguita nella quasi totalità delle chiese nella prima metà del IV secolo), è possibile trovare testimonianze sul fatto che l’ascensione di Gesù e l’invio dello Spirito venivano ancora considerati insieme come il sigillo della Pentecoste all’inizio del V secolo. Da un punto di vista teologico, questa profonda unità di Pasqua-Ascensione-Pentecoste non manca di aprire opportunità di feconda riflessione per meglio cogliere i diversi aspetti di un unico grande evento come quello della Risurrezione di Gesù dai morti. Sebbene quindi, a partire dall’ultima decade del IV secolo, la chiesa sentì progressivamente di dover distinguere questi tre aspetti dell’unico momento redentivo, è comunque sbagliato pensare che questa fosse la conseguenza di una visione di eventi di un passato che bisognava in qualche modo rivivere nel nostro presente. La celebrazione dell’Ascensione il quarantesimo giorno è esplicitamente menzionata nelle Costituzioni Apostoliche, anche se Jean Danielou ha sostenuto che la prima menzione dell’Ascensione il quarantesimo giorno si trova in un sermone di Gregorio di Nissa predicato nel 388 e che la separazione del tema dell’Ascensione da quello dell’invio dello Spirito santo risulta dalla forte enfasi teologica sulla persona dello Spirito nella condanna del macedonianismo nel concilio costantinopolitano del 381. Era comunque già dal concilio di Elvira del 300 che, perlomeno in alcune chiese, si credeva che il quarantesimo giorno segnasse il tempo nel quale “lo Sposo sarà loro tolto” (Mc 2, 18-20 e paralleli), testo biblico invocato come fondamento della proibizione del digiuno (e dell’inginocchiarsi) durante la Pentecoste. Il desiderio di alcuni di ritornare alla normale pratica del digiuno dopo il quarantesimo giorno di festeggiamenti pasquali, abbreviando quindi l’originale periodo di cinquanta giorni, fu inizialmente respinto dal concilio spagnolo. Ma nel giro qualche decina d’anni, sebbene Gerusalemme e soprattutto Alessandria fossero importanti eccezioni a questa usanza, l’identificazione del quarantesimo giorno come conclusione del periodo pasquale e come celebrazione dell’Ascensione di Gesù al cielo era praticamente cosa fatta.
I libri liturgici bizantini in uso oggi, celebrano la conclusione del periodo pasquale, ripetendo integralmente gli uffici del giorno di Pasqua, tra il martedì sera e il mercoledì mattina che precedono la festa dell’Ascensione. Dopo questo inquadramento sull’origine storica della festa, possiamo ora accostarci al contenuto innografico della stessa.
La prima strofa che si canta al Lucernario vesperale, di autore anonimo, riassume (come quasi sempre) il contenuto della festa:
Il Signore è asceso ai cieli per mandare il Paraclito nel mondo. I cieli hanno preparato il suo trono, le nubi il carro su cui salire; stupiscono gli angeli vedendo un uomo al di sopra di loro. Il Padre riceve colui che dall’eternità, nel suo seno dimora. Lo Spirito santo ordina a tutti i suoi angeli: alzate, principi, le vostre porte. Genti tutte, battete le mani, perché Cristo è salito dove era prima.
Vale la pena soffermarci su questa strofa, perché siamo di fronte alla antinomia più inconcepibile del cristianesimo, la sorgente della massima gioia: è l’unione della natura divina con quella umana nella gloria, della presenza della carne nel cielo dove “abita” la Trinità.
Dopo l’abbassamento e l’esaltazione di Dio, possiamo considerare questa festa come l’apoteosi dell’uomo. L’ascensione non è semplicemente una salita: il termine greco anàlipsis indica anche l’azione di ristabilire, restaurare (un edificio), riparare (una colpa), di riprendere, riconoscere (un figlio), ricuperare, ricapitolare. I cieli dove ascende il Signore, più che un luogo spaziale, rappresentano la dimora trinitaria, e, intesi scritturisticamente, sono equivalenti alla destra del Padre; il Cristo ascende per mantenere la sua promessa e inviare il Paraclito (Gv 14, 26; 15, 26; 16, 7). Lo Spirito non sarà del mondo, ma nel mondo, dono offerto a chi potrà riceverlo liberamente come anche a chi potrà respingerlo. I cieli preparano il suo trono perché questa è davvero la restaurazione della regalità del Figlio. La presenza della nube indica il carattere simbolico di ciò che potremmo chiamare l’aspetto fisico dell’Ascensione. La nube che avvolgeva il tabernacolo e che guidava Israele nel deserto costituiva un segno visibile della presenza divina. Ma la frase più sconvolgente è la successiva: gli angeli non si capacitano di come possano vedere un uomo sopra di loro! Questo sarà uno dei temi più ricorrenti nell’innografia.
Costantin Andronikov faceva notare a riguardo: “Se sul tema della Passione la letteratura è immensa, che la natura umana sieda alla destra del Padre e che il Figlio voglia che siamo anche noi con lui (Gv 17, 24) è una cosa che non sembra avere avuto un’eco molto forte nella cristianità. Non manca chi si compiace della dimensione luminosa della spiritualità beatifica dell’Ortodossia, dimenticando che il mistero pasquale implica la croce e il lungo cammino che vi conduce: sono i seguaci della Trasfigurazione più che dell’Ascensione.
Il contenuto teologico dell’Ascensione è forse troppo forte per essere percepito”.
Non c’è un solo evento nella storia della salvezza che non sia trinitario: il Padre riceve colui che gli è consustanziale ed eterno, che ha sempre dimorato nel suo seno, e lo Spirito Santo ordina agli angeli di aprire i portali per far entrare il Re della gloria (Sal 24, 9). Già Ireneo e Giustino hanno interpretato questo versetto salmico nel senso dell’Ascensione: le porte della città di Dio, la Gerusalemme celeste, si spalancano perché il Cristo, dopo aver compiuto la sua missione sulla terra, vi entri per regnare alla destra del Padre, da cui comunque non si era mai separato e dove era sempre rimasto, come ci fa notare la frase conclusiva della nostra strofa.
Che qualcosa leghi Tabor e Monte degli Ulivi emerge da una delle strofe successive:
Contemplando le tue esaltazione sui monti santi, o Cristo, irradiazione della gloria del Padre, noi cantiamo la luminosa figura del tuo volto, adoriamo i tuoi patimenti, onoriamo la tua risurrezione, glorificando la tua gloriosa ascensione.
Se la Trasfigurazione, come canta il tropario della festa, doveva far percepire qualcosa della gloria divina ai discepoli affinché, a tempo debito, comprendessero che la passione di Cristo era volontaria, l’Ascensione è una trasfigurazione definitiva!
La strofa che si canta al Gloria del Lucernario, riprendendo elementi già delineati in altre strofe non commentate, si sofferma sul grande tema della contemporaneità dei due stati del Verbo incarnato:
Tu che, senza separarti dal seno paterno, o dolcissimo Gesù, hai vissuto sulla terra come uomo, oggi dal Monte degli Ulivi sei asceso nella gloria: e risollevando, compassionevole, la nostra natura caduta, l’hai fatta sedere con te accanto al Padre. Per questo le celesti schiere degli incorporei, sbigottite per il prodigio, estatiche stupivano e, prese da timore, magnificavano il tuo amore per gli uomini. Con loro anche noi, quaggiù sulla terra, glorificando la tua discesa fra noi e la tua dipartita da noi con l’ascensione, supplici diciamo: O tu che con la tua ascensione hai colmato di gioia infinita i discepoli e la Madre di Dio che ti ha partorito, per le loro preghiere concedi anche a noi la gioia dei tuoi eletti, nella tua grande misericordia.
Il Figlio è sempre stato “nel cielo” con il Padre, ed ha contemporaneamente vissuto sulla terra con gli uomini: avendo compiuto la sua opera, per la quale era disceso sulla terra, è risalito al cielo nella gloria. Questo movimento discendente ed ascendente della Divinità è il fondamento di ogni preghiera e di ogni mistero liturgico, in modo particolare dell’Eucaristia. Ma è anche un movimento che, con l’invio dello Spirito Santo a Pentecoste, non si esaurisce: da un lato l’energia dello Spirito rende spirituale (pneumatico) tutto l’essere umano, corpo compreso, dall’altro l’elevazione della natura umana fino alla Divinità, effettuata dalla Seconda Persona della Trinità personalmente e corporalmente, rende percorribile lo stesso percorso a ciascun uomo che si lasci pneumatizzare.
E per fugare ogni possibile dubbio, il testo precisa che è proprio la nostra natura decaduta che viene innalzata: non un qualcosa di aggiunto, che si sovrappone al limite umano dall’esterno, ma è la natura umana risuscitata, liberata dalla corruzione e dalla morte che in Cristo, e attraverso lo Spirito, è santa, trasfigurata e divinizzata. D’ora in poi è questa la vera natura dell’uomo: non più la beata innocenza paradisiaca del primo Adamo, ma la natura resa gloriosa dal Figlio di Dio, nuovo Adamo, morto sulla croce, sepolto e risorto il terzo giorno. Tra cielo e terra non c’è più nessuna frattura e la liturgia, cielo sulla terra, celebrerà questo permanentemente, rendendo attuale nell’oggi liturgico ciò che era stato nell’Eden e che sarà per sempre nel Regno.
Nicola Cabasilas, il famoso teologo (laico) del medioevo bizantino, nel suo commento alla Divina Liturgia affermava: “gli angeli e gli uomini sono divenuti una sola Chiesa, un unico coro, mediante la manifestazione di Cristo che appartiene ad un tempo al cielo e alla terra”. Pur sottraendo Gesù allo sguardo, l’Ascensione non riempie di tristezza, ma ricolma di gioia i discepoli e la Madre di Dio. Maria, in primo piano al centro dell’icona della festa, ci guida verso il Figlio che ascende, nell’esultanza della comunione dei santi del cielo e della terra.
Il Vespero prevede tre letture veterotestamentarie. La prima è una profezia di Isaia (Is 2, 2-3):
Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri». Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore.
Sion e Tempio si identificano e prefigurano la Chiesa, che si eleva come assemblea dei popoli che camminano sulle vie del Signore. Anche la seconda lettura è una profezia di Isaia (Is 62,10-63,1-3.7-9):
Passate, passate per le porte, sgombrate la via al popolo, spianate, spianate la strada, liberatela dalle pietre, innalzate un vessillo per i popoli. Ecco ciò che il Signore fa sentire all’estremità della terra: «Dite alla figlia di Sion: Ecco, arriva il tuo salvatore; ecco, ha con sé la sua mercede, la sua ricompensa è davanti a lui. Li chiameranno popolo santo, redenti del Signore. E tu sarai chiamata Ricercata, Città non abbandonata». Chi è costui che viene da Edom, da Bozra con le vesti tinte di rosso? Costui, splendido nella sua veste, che avanza nella pienezza della sua forza? - «Io, che parlo con giustizia, sono grande nel soccorrere». - Perché rossa è la tua veste e i tuoi abiti come quelli di chi pigia nel tino? - «Nel tino ho pigiato da solo e del mio popolo nessuno era con me. Li ho pigiati con sdegno, li ho calpestati con ira. Il loro sangue è sprizzato sulle mie vesti e mi sono macchiato tutti gli abiti, Voglio ricordare i benefici del Signore, le glorie del Signore, quanto egli ha fatto per noi. Egli è grande in bontà per la casa di Israele. Egli ci trattò secondo il suo amore, secondo la grandezza della sua misericordia. Disse: «Certo, essi sono il mio popolo, figli che non deluderanno» e fu per loro un salvatore in tutte le angosce. Non un inviato né un angelo, ma egli stesso li ha salvati; con amore e compassione egli li ha riscattati; li ha sollevati e portati su di sé, in tutti i giorni del passato.
Se non ci sono particolari problemi nel collocare la prima parte del brano nel contesto della nuova Sion, ricostruita dopo l’esilio, dove le immagini matrimoniali mostrano come la profezia di Osea sia ormai superata, la seconda parte del brano, a partire dal capitolo 63, fa emergere una notevole distanza tra l’esegesi moderna e quella dei Padri.
Se Stefano Virgulin, commentando il libro Isaia nella Nuovissima Versione della Bibbia pubblicata negli anni ‘80 dalle Edizioni Paoline, poteva definire l’applicazione al Messia di questo brano una “audace accomodazione”, il senso di questa profezia è sempre apparso evidente per la tradizione cristiana: si tratta della Parusia di Cristo, che porta i segni della sua Passione, seconda venuta annunciata dalla stessa Ascensione. Il senso letterale del brano descrive la vittoria di YHWH, ebbro di furore, sui nemici del popolo rappresentati da Edom (in ebraico Edom e rosso hanno le stesse consonanti), ma l’arco ermeneutico ci consente di recuperare anche gli influssi che i testi biblici hanno esercitato nella fede storica della comunità cristiana, e ci fa gustare uno dei punti in cui la liturgia bizantina ha interpretato questo passo esattamente come la liturgia latina, che commenta questa profezia nei vesperi del preziosissimo sangue di Gesù.
La terza lettura è una profezia di Zaccaria (Zc 14, 1.4.8-11):
Ecco, viene un giorno per il Signore. In quel giorno i suoi piedi si poseranno sopra il monte degli Ulivi che sta di fronte a Gerusalemme verso oriente, e il monte degli Ulivi si fenderà in due, da oriente a occidente, formando una valle molto profonda; una metà del monte si ritirerà verso settentrione e l’altra verso mezzogiorno. In quel giorno acque vive sgorgheranno da Gerusalemme e scenderanno parte verso il mare orientale, parte verso il Mar Mediterraneo, sempre, estate e inverno. Il Signore sarà re di tutta la terra e ci sarà il Signore soltanto, e soltanto il suo nome. Tutto il paese si trasformerà in pianura da Gàbaa fino a Rimmòn nel Negheb; Gerusalemme si eleverà e sarà abitata nel luogo dov’è, dalla porta di Beniamino fino al posto della prima porta, cioè fino alla porta dell’Angolo, e dalla torre di Cananeèl fino ai torchi del re. Ivi abiteranno: non vi sarà più sterminio e Gerusalemme se ne starà tranquilla e sicura.
Tenendo ben presente quanto detto finora, possiamo apprezzare, nelle strofe che concludono i Vesperi, la ripresa dei temi già emersi, trattati con una chiarezza terminologica davvero sorprendente.
Ora che sei asceso ai cieli dai quali eri disceso, non lasciarci orfani, Signore: venga il tuo Spirito a portare pace al mondo. Signore, tu hai rinnovato in te stesso la natura umana decaduta in Adamo nel più profondo della terra; oggi l’hai elevata al di sopra dei principati e delle potenze celesti; avendola amata, tu l’hai fatta sedere con te, per compassione l’hai unita alla tua sorte, hai condiviso le sue sofferenze in questa unione, e l’hai glorificata, tu l’Impassibile, per la tua passione; ma le potenze incorporee si dicevano: chi è dunque quest’uomo risplendente? Non è solamente uomo, ma è Uomo e Dio, poiché possiede aspetti di entrambi. Signore, compiuto nella tua bontà il mistero nascosto da secoli e generazioni, sei andato con i tuoi discepoli al Monte degli Ulivi, insieme a colei che ha partorito te, Creatore e Artefice dell’universo: bisognava infatti che godesse di immensa gioia per la glorificazione della tua carne, colei che più di tutti come Maria aveva sofferto nella tua passione. Sei stato partorito come tu hai voluto; ti sei manifestato come avevi stabilito, hai patito nella carne, o Dio nostro; sei risorto dai morti e hai calpestato la morte; sei asceso nella gloria, tu che tutto riempi, e ci hai mandato lo Spirito divino affinché celebriamo e glorifichiamo la tua divinità. Mentre tu ascendevi, o Cristo, dal Monte degli Ulivi, le schiere celesti che ti vedevano si dicevano l’una all’altra: Chi è costui? E rispondevano: è il forte, il potente, il potente in battaglia; costui è veramente il Re della gloria. Ma perché sono rossi i suoi vestiti? Viene da Bosor, cioè dalla carne. Sei asceso nella gloria dal Monte degli Ulivi, o Cristo Dio, sotto gli occhi dei tuoi discepoli, e ti sei assiso alla destra del Padre, tu che riempi l’universo con la tua divinità: e hai mandato loro lo Spirito Santo per illuminare, confermare e santificare le nostre anime. È asceso Dio tra le acclamazioni, il Signore, al suono della tromba, per risollevare l’immagine caduta di Adamo e inviare lo Spirito Paraclito a santificazione delle nostre anime.
Dovendo scrivere un trattato di teologia dogmatica, potremmo domandarci se sia necessario aggiungere qualcosa a questi testi. Tentiamo qualche commento. Il termine theànthropos, che non si incontra frequentemente nei testi liturgici, esprime la caratteristica fondamentale del cristianesimo: l’Ascensione è il trionfo del Dio-Uomo. Se togliessimo l’umanità a Colui che è salito alla destra del Padre, il cristianesimo sarebbe una qualsiasi gnosi. Ma senza l’Ascensione, la Pentecoste, e la nascita della Chiesa, non avrebbe la stessa portata, perché quale senso avrebbe l’essere membra del Corpo glorificato, templi dello Spirito Santo? Se è vero che il corpo del Risorto è un elemento chiave della cristologia, dove altro potrebbe fondarsi l’antropologia? Fatto a immagine di Dio, l’uomo è destinato anche alla somiglianza della gloria divina, perché Cristo è il Dio-Uomo, e l’Ascensione è nella carne. Così la Madre di Dio, vera Mater ecclesiae in quanto madre del corpo di Cristo che è la Chiesa, non poteva non provare una gioia indicibile nel vedere il frutto del suo seno glorificato nella carne per opera dello Spirito Santo dopo averlo visto morire sulla Croce.
Nel Mattutino, una strofa che viene intercalata alla salmodia introduce un vocabolo che ha segnato gran parte della teologia orientale:
Il Dio che è prima dei secoli e senza principio, dopo avere misticamente divinizzata la natura umana da lui assunta, è oggi asceso al cielo.
Il termine in questione è la theosis, la deificazione, presente nella prima lettera di Pietro, ripreso da Ireneo, ma divenuto un classico patristico a partire da Atanasio. Dopo essere stata una prerogativa ortodossa, grazie alla rinascita della teologia orientale del XX secolo ad opera soprattutto della diaspora russa, è divenuto un tema che ha ritrovato spazio anche nella riflessione occidentale, venendo accostato alla visione di Dio come fino ultimo della vita cristiana.
Una successiva strofa ci consente una ulteriore riflessione:
Disceso dal cielo alle regioni terrestri, hai risuscitato con te, poiché sei Dio, la natura umana che giaceva in basso, nel carcere dell’ade, e con la tua ascensione, o Cristo, l’hai fatta salire ai cieli, rendendola con te partecipe del trono del Padre tuo.
La discesa di Cristo agli inferi segna il punto più in basso del suo movimento dal cielo alla terra: seguendo il pensiero patristico, non è quindi l’incarnazione l’estremità inferiore, il termine della condiscendenza divina, ed è dagli inferi che inizia il movimento di risalita. L’Ascensione quindi, anche in questo senso inseparabile dalla Pasqua, parte dal regno dei morti, dai più lontani, e nel giorno di Pasqua incrocia di nuovo la terra.
La festa presenta due pericopi evangeliche: la prima da leggersi al Mattutino (Mc 16, 9-29), la seconda da leggersi alla Divina Liturgia (Lc 24, 36-53).
Risuscitato al mattino nel primo giorno dopo il sabato, apparve prima a Maria di Màgdala, dalla quale aveva cacciato sette demòni. Questa andò ad annunziarlo ai suoi seguaci che erano in lutto e in pianto. Ma essi, udito che era vivo ed era stato visto da lei, non vollero credere. Dopo ciò, apparve a due di loro sotto altro aspetto, mentre erano in cammino verso la campagna. Anch’essi ritornarono ad annunziarlo agli altri; ma neanche a loro vollero credere. Alla fine apparve agli undici, mentre stavano a mensa, e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risuscitato. Gesù disse loro: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno”. Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano.
In quel tempo, mentre i discepoli parlavano dell’accaduto, Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse: “Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho”. Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: “Avete qui qualche cosa da mangiare?”. Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: “Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi”. Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture e disse: “Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto”. Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; e stavano sempre nel tempio lodando Dio.
Il mattutino offre due canoni: il primo è opera di Giovanni Damasceno, che già abbiamo avuto modo di incontrare, il secondo è di Giuseppe di Tessalonica, nato in Sicilia nell’816, divenuto monaco e sacerdote a Tessalonica e morto nell’886 ricoprendo la carica di custode di Santa Sofia a Costantinopoli. Iniziamo a percorrere proprio questo secondo canone.
Sei risorto il terzo giorno, tu che per natura sei immortale, sei apparso agli undici e a tutti i discepoli; quindi sei asceso al Padre, o Cristo, portato da una nube, o Creatore dell’universo. O Signore, dopo aver rinnovato con la tua passione e risurrezione il mondo invecchiato per i tanti peccati, sei asceso ai cieli, portato da una nube: gloria alla tua gloria.
Già in questa prima ode Giuseppe introduce l’elemento cosmico, perché la portata dell’Ascensione non riguarda solo l’uomo, ma tutto l’universo, che qui può tranquillamente essere inteso come il creato. È evidente il legame con la teologia di san Paolo sulla creazione, che nella terza ode diviene ancora più esplicito nella riunificazione, o ricapitolazione di tutto in Cristo, che riunisce le realtà separate.
Sollevate le porte celesti: ecco è giunto il Cristo, Re e Signore, rivestito di corpo terrestre. Dopo aver cercato Adamo che si era smarrito per l’inganno del serpente, o Cristo, di lui rivestito sei asceso al cielo e ti sei assiso alla destra del Padre, partecipe del suo trono. Fa festa e canta la terra, e anche il cielo esulta, perché oggi ascende ai cieli l’artefice del creato, che per suo volere ha manifestamente unito realtà separate.
Nella quarta ode c’è un audace immagine che associa il ventre di Maria e quello dell’ade, ponendoli però a distanza diametralmente opposta, in quanto il primo, quello di Maria, ha saputo portare il Cristo, colui che con la sua risurrezione dai morti ha svuotato il ventre del secondo, l’ade, che divorava voracemente gli uomini soggetti alla corruzione.
Beato il tuo ventre, o tutta immacolata, perché inesplicabilmente è stato degno di contenere colui che prodigiosamente ha svuotato il ventre dell’ade.
Nella quinta ode potremmo disegnare una parabola che rappresenta il movimento discendente di Dio sulla terra con l’incarnazione, il cui vertice sta nella discesa agli inferi da cui inizia il movimento di risalita, e che si conclude con l’ascensione, prefigurata nel primo testamento con quella di Elia.
Straordinaria la tua nascita, straordinaria la tua risurrezione, straordinaria e tremenda, o datore di vita, la tua divina ascensione dal monte: prefigurandola, Elia saliva in alto con un carro a quattro cavalli, celebrando te, o amico degli uomini.
Ma, come dicevamo, il movimento divino non si esaurisce, perché un successivo tropario ci consente di disegnare una seconda parabola: se precedente era relativa alla prima venuta di Gesù, la seconda è di natura escatologica, riguarda la seconda venuta del Cristo, e prefigura il Giudizio.
Agli apostoli che continuavano a guardare dissero gli angeli: Uomini di Galilea, perché restate sbigottiti per l’ascensione del Cristo, datore di vita? Così egli stesso verrà di nuovo sulla terra per giudicare tutto il mondo, quale santissimo Giudice.
Nella sesta ode riemerge il tema della seconda lettura veterotestamentaria del Vespero:
Apparso in sembianze corporee, hai congiunto in uno ciò che prima era diviso, o amico degli uomini, e sei così asceso ai cieli. Perché sono rossi gli abiti di colui che si è unito alla densità della carne? Questo si chiedevano i santi angeli, vedendo il Cristo con i divini segni della sua venerabile passione.
Nella settima ode il tema è quello della nube: sul Sinai essa velava lo splendore insostenibile della potenza divina, mentre sul Monte degli Ulivi (e come abbiamo visto sul Tabor) la nube è quella della gloria visibile, quella di cui Mosè aveva potuto percepire solo il rovescio, nonostante la sua richiesta (Es 33, 18-23):
Una nube luminosa sottrasse te che sei luce, o Signore, mentre oltre ogni comprensione, dalla terra ti elevavi al cielo. Un tempo il grande Mosè salmeggiando esclamò: adorino il Cristo che ascende, gli angeli del cielo, perché è Re dell’universo.
L’ottava ode riafferma il punto in cui siamo stati collocati, vertiginosamente incomprensibile:
È stata innalzata al di sopra degli angeli la nostra natura un tempo caduta, ed è stata collocata, oltre ogni comprensione, sul trono divino.
La nona e conclusiva ode del canone di Giuseppe, pervasa da un indicibile stupore, ci invita comunque ad andare oltre: già si prefigura la festa che deve venire, quella della Pentecoste, nella quale il dono dello Spirito Santo rende fiamma i discepoli:
O doni oltre ogni comprensione! O tremendo mistero! Colui che tutto domina, ascendendo dalla terra ai cieli, ha inviato ai discepoli lo Spirito Santo, che illumina le loro menti e con la grazia li rende di fiamma.
È il Paraclito, il Consolatore, che ha la stessa dignità del Padre e del Figlio:
Il Signore disse ai suoi discepoli: voi restate a Gerusalemme; ed io vi manderò un altro Consolatore, assiso in trono col Padre e pari in dignità a me, che oggi voi vedete ascendere portato da una nube di luce.
Non è possibile smettere di contemplare dove l’Ascensione di Gesù ci ha portato:
Visibilmente è stata innalzata fino all’alto dei cieli la magnificenza di colui che si è fatto povero nella carne, e la nostra natura decaduta ha l’onore di assidersi accanto al Padre.
Rileggiamo ora il primo canone della festa, quello di san Giovanni Damasceno, dove notiamo una significativa particolarità: i primi tropari di ogni ode dei canoni (gli irmos) sono generalmente improntati al contenuto del cantico del primo testamento a cui ogni ode fa riferimento; oggi invece molti di essi sono di contenuto squisitamente evangelico, come se l’innografo avesse voluto così ulteriormente sottolineare il compimento in questa festa dell’insieme delle profezie messianiche, coronamento del mistero pasquale.
Cantiamo, popoli tutti, un canto di vittoria al Cristo che ascende glorioso sulle spalle dei cherubini, e con lui fa sedere anche noi alla destra del Padre. I cori degli angeli sbigottivano vedendo nell’alto dei cieli con la carne il Cristo mediatore tra Dio e gli uomini. Cantiamo tutti al Dio che è apparso sul monte Sinai e ha dato la Legge al veggente Mosè, e che dal monte degli Ulivi ascende nella carne, perché si è reso glorioso.
I cherubini, che sormontavano l’arca, sui quali Dio si sedeva e costituivano quindi il suo trono, ora portano Gesù risorto presso lo stesso trono, da dove continuerà a sedere alla destra del Padre come Dio-Uomo. La Legge, le dieci parole, data da Dio a Mosè, scritta sulle tavole di pietra e deposta nell’arca dell’Alleanza, è compiuta da Gesù, la Parola di Dio, che ascende nella gloria della sua carne.
Le schiere degli angeli, o Salvatore, vedendo la natura mortale ascendere unita a te, ti celebravano incessantemente, piene di stupore. Hai risollevato, o Cristo, la natura umana caduta nella corruzione, l’hai portata in alto con la tua ascensione, e insieme a te ci hai glorificati.
Sei asceso nella gloria, o Re degli angeli, per inviarci il Paraclito da presso il Padre.
Ricorrendo all’immagine della pecorella smarrita, l’innografo la identifica con la nostra natura, posta da Gesù sulle sue spalle, che ascende con lui e viene presentata da lui al Padre: è la festa sfolgorante della vera e piena umanità.
Prendendoti sulle spalle, o Cristo, la natura che si era smarrita, sei asceso al cielo e l’hai presentata a Dio Padre. Tu sei asceso con la carne al Padre incorporeo.
Nel movimento dell’Ascensione Gesù trascina quindi con sé gli stessi Adamo ed Eva che era andato a cercare negli inferi, così come ci mostra l’icona della Risurrezione.
Celebrate colui che con la sua discesa ha abbattuto l’avversario, e con la sua ascensione ha innalzato l’uomo.Vedendo nelle altezze dei cieli la tua carne deificata, o Cristo, gli angeli si facevano cenno l’un l’altro dicendo: veramente costui è il nostro Dio. Sei disceso fino alle estremità della terra per salvare l’uomo, e con la tua ascensione lo hai portato in alto.
Nell’omelia pronunciata durante la messa del suo insediamento sulla cattedra romana di san Giovanni in Laterano, celebrata l’8 maggio del 2005, festa dell’Ascensione, Benedetto XVI così commentava: “Cosa ci vuol dire allora la Festa dell’Ascensione del Signore? Non vuol dirci che il Signore se ne è andato in qualche luogo lontano dagli uomini e dal mondo. L’Ascensione di Cristo non è un viaggio nello spazio verso gli astri più remoti; perché, in fondo, anche gli astri sono fatti di elementi fisici come la terra. L’Ascensione di Cristo significa che Egli non appartiene più al mondo della corruzione e della morte che condiziona la nostra vita. Significa che Egli appartiene completamente a Dio. Egli – il Figlio Eterno – ha condotto il nostro essere umano al cospetto di Dio, ha portato con sé la carne e il sangue in una forma trasfigurata. L’uomo trova spazio in Dio; attraverso Cristo, l’essere umano è stato portato fin dentro la vita stessa di Dio. E poiché Dio abbraccia e sostiene l’intero cosmo, l’Ascensione del Signore significa che Cristo non si è allontanato da noi, ma che adesso, grazie al Suo essere con il Padre, è vicino ad ognuno di noi, per sempre. Ognuno di noi può dargli del tu; ognuno può chiamarlo. Il Signore si trova sempre a portata di voce. Possiamo allontanarci da Lui interiormente. Possiamo vivere voltandogli le spalle. Ma Egli ci aspetta sempre, ed è sempre vicino a noi”.

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